di Sara Messere
Sommario: 1. La ricostruzione della Cassazione: la piena legittimità dell’azione collettiva al di là dello sciopero. – 2. La sua difficile compatibilità con la regolazione legale dello sciopero: la l. 146 del 1990 per i servizi essenziali. – 3. La sua più generale debolezza: l’espressa previsione dell’art. 40 Cost. – 4. Il debole sostegno del versante sovranazionale.
1. Con la sentenza n. 12269 del 9 maggio 2025 la Corte di cassazione affronta nuovamente il delicato tema della tutela del lavoratore che partecipa a una protesta collettiva “atipica”, ribadendo la necessità di una lettura sostanziale – e non meramente formale – dell’esercizio del diritto di azione collettiva, anche al di fuori della tipologia classica dello sciopero.
La vicenda trae origine dal licenziamento disciplinare intimato dalla società, datrice di lavoro, a un lavoratore, per essersi rifiutato di aderire a un turno a scorrimento insieme a un gruppo di colleghi e, quindi, per “aver svolto un turno diverso da quello disposto”.
Tale condotta – ad avviso della sentenza impugnata dinanzi agli Ermellini – non sostanziandosi in un’astensione dal lavoro, si limitava a realizzare una modifica non autorizzata della modalità esecutiva della prestazione, motivata dalla soppressione, da parte del datore di lavoro, di un’indennità economica precedentemente riconosciuta. Più precisamente, la Corte d’Appello, pur affermando la dimensione collettiva della protesta e il relativo intento sindacale, escludeva la sussistenza di uno sciopero e, di conseguenza, la legittimità della condotta in quanto non accompagnata da astensione anche solo parziale dal lavoro e non formalmente proclamata da un sindacato. Qualificava, pertanto, la condotta in termini di inadempimento individuale e negava qualsivoglia tutela a favore del prestatore di lavoro.
La Cassazione, censurando questa pronuncia, adotta una differente ricostruzione.
Secondo i giudici di piazza Cavour il diritto all’azione collettiva dei lavoratori non si esaurisce nella forma tipica dello sciopero, ma comprende ogni iniziativa rivendicativa di natura collettiva, purché diretta alla tutela di interessi condivisi e realizzata senza ledere diritti fondamentali, quali il diritto alla vita e all’incolumità personale nonché la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).
Il punto dirimente risiede nell’identificazione della condotta quale espressione del diritto dei lavoratori all’azione collettiva, diritto tutelato tanto dalla Costituzione, con l’ampia libertà sindacale di cui all’art. 39 c. 1, quanto da fonti sovranazionali – l’art. 28 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 13 della Carta Comunitaria Europea dei Diritti sociali Fondamentali dei Lavoratori, l’art. 6 della Carta Sociale Europea – che riconoscono in generale il diritto a iniziative collettive di autotutela, “compreso lo sciopero”.
L’azione collettiva diversa dallo sciopero, volta ad ottenere migliori condizioni di lavoro o il rispetto dei contratti colletti, ad avviso della Cassazione va ritenuta perciò pienamente legittima e soggetta ai medesimi limiti previsti per lo sciopero. Sicché, al di fuori di essi, l’esercizio di un’azione collettiva atipica non solo non può dare luogo a un licenziamento per giusta causa, ma esclude pure l’applicazione di sanzioni conservative costituendo “pur sempre espressione di un diritto costituzionalmente garantito”.
In applicazione dei principi affermati, la Corte, accogliendo il primo motivo del ricorso incidentale proposto dal lavoratore, accerta la nullità del licenziamento e cassa la sentenza, rinviando la causa alla Corte territoriale.
2. Dunque, la sentenza in commento si inserisce nel solco di un’evoluzione interpretativa che si muove in favore dell’ampliamento delle forme di conflitto collettivo atipico, valorizzando la libertà sindacale in senso sostanziale.
Tale orientamento mira a non lasciare prive di tutela quelle modalità di dissenso che, pur non rientrando a tutti gli effetti nella nozione di sciopero, si traducono in un’azione collettiva, senza ledere, da un lato, l’incolumità delle persone, dall’altro la capacità produttiva delle aziende.
Benché il principio della libertà sindacale sia da tenere senz’altro ben presente, la linea interpretativa seguita dalla Cassazione si presta ad alcuni rilievi critici.
La ricostruzione accolta dalla Corte si pone in opposizione rispetto al consolidato orientamento che legittima appieno la protesta collettiva esclusivamente se in presenza di un’astensione dal lavoro decisa ed attuata collettivamente per la tutela di interessi comuni: tra i requisiti necessari vi è, quindi, l’astensione dal lavoro.
L’impostazione seguita dalla Corte, nell’intento di garantire un’estensione dell’area di liceità del conflitto collettivo, rischia di togliere peso all’art. 40 Cost.: è infatti lo sciopero, mera libertà nel periodo prefascista e reato nell’ordinamento corporativo, a essere riconosciuto dalla Costituzione come diritto soggettivo. Ed è riconosciuto non senza limiti. Di conseguenza non possono ignorarsi le possibili frizioni della tesi della Cassazione rispetto sia allo sciopero “regolamentato” sia allo sciopero più in generale.
Nel primo caso, il riferimento è alla disciplina contenuta nella legge n. 146/1990 per i servizi essenziali, che proprio sulla base dell’art. 40 Cost. individua specifici limiti all’esercizio del diritto di sciopero, indispensabili ai fini della tutela dell’utente. Trattasi di una disciplina che, mediante le sue regole procedurali e di salvaguardia delle prestazioni indispensabili, è volta a bilanciare il diritto di sciopero con la necessità di salvaguardare altri diritti della persona costituzionalmente garantiti, assicurando che l’esercizio del diritto non si traduca in un arbitrio, ma resti sempre ispirato a principi di legalità e prevedibilità.
L’orientamento della Cassazione mette a repentaglio proprio queste basilari esigenze: la possibilità di sottrarsi al rispetto delle procedure di preavviso e delle altre regole previste attraverso azioni collettive atipiche eluderebbe la funzione della legge n. 146/1990, riducendone l’effettività e aprendo le porte a possibili disagi per gli utenti.
Vero è che la Commissione di garanzia – la quale (come si sa) sovraintende all’attuazione della legge del ’90 – ha da tempo esteso l’applicazione della disciplina in questione anche ad azioni collettive diverse dallo sciopero, come l’assemblea; è altrettanto vero, però, che all’orientamento della Cassazione può conseguire un’estensione delle forme di proteste difficile da governare e certamente in tempi non brevi, mettendo a rischio l’equilibrio dei diritti costituzionali in gioco.
3. Sebbene sullo sfondo di uno scenario diverso, ancor prima è assai significativa la tensione che la tesi della Cassazione crea rispetto allo sciopero in generale.
Come già sottolineato, l’ordinamento espressamente riconosce “il diritto di sciopero” nel fondamentale art. 40 della Costituzione. La nozione di sciopero, invero, è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel corso dei decenni, consolidandosi in alcuni elementi strutturali: la natura individuale ad esercizio collettivo del diritto che si sostanzia in necessarie astensioni dall’attività lavorativa.
La pronuncia in commento sembra invece propensa ad eliminare questi profili imprescindibili, in particolare l’astensione dal lavoro, accogliendo una concezione ampia e indeterminata di protesta collettiva meritevole di tutela. Ne consegue che appare difficilmente spiegabile l’espressa previsione, in una norma costituzionale, del diritto di sciopero definito dai rammentati tratti giuridici perché l’azione collettiva possa risultare pienamente legittima. In altri termini, se per un verso il Costituente riconosce la libertà sindacale, dai molteplici contenuti e sviluppi, dall’altro configura una ben precisa situazione soggettiva affinché l’azione collettiva possa configurarsi come un “privilegio” rispetto al diritto comune dei contratti, rendendola quindi legittima anche sul piano civile a dispetto di quanto indicato dal contratto di lavoro.
Si profila così il rischio di una scomposizione dell’azione collettiva: al diritto di sciopero, frutto di un’ormai consolidata posizione ordinamentale, finirebbero per affiancarsi azioni collettive dai limiti indefiniti, tali da minare la generale coerenza di un sistema che ad esse dà, sì, riconoscimento, ma regolandole e graduandole.
4. Né a conclusioni diverse sembra condure il diritto sovranazionale.
Tutte le norme citate dalla sentenza in commento – art. 28 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 13 della Carta Comunitaria Europea dei Diritti sociali Fondamentali dei Lavoratori, art. 6 della Carta Sociale Europea – fanno indubbiamente riferimento, in generale, ad azioni collettive. Nondimeno, le medesime norme, allo stesso tempo, contemplano esplicitamente il diritto di sciopero con un’espressione inclusiva che depone per una sua configurazione in termini di azione di autotutela più incisiva. In altre parole, l’espressione “compreso lo sciopero” sembra proprio da leggere: “finanche lo sciopero”.
Peraltro, in merito all’art. 28 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea va considerata l’inesistenza di una normativa dell’Unione (Trattati, regolamenti o direttive) in materia di azioni collettive. Il che, secondo la costante interpretazione dell’art. 51 della stessa Carta seguita dalla Corte di Giustizia, ostacola l’applicazione dell’art. 28 nei singoli Stati.
In conclusione, l’indefinita espansione dei confini giuridici dell’azione collettiva legittima non appare condivisibile. Più d’uno, e non marginali, sono gli argomenti contrari. Il rischio principale è che si attribuisca indebitamente al giudice un potere “creativo” che, di volta in volta, definisca i confini della libertà sindacale, vulnerando coerenza e certezza del diritto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI
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PINO, Manuale sul conflitto nei servizi pubblici essenziali, Giappichelli, 2025.
ROMAGNOLI, Commento all’art. 40 Cost., in Commentario alla Costituzione, diretto da GIU., BRANCA, Zanichelli-Foro italiano, 1979, p. 302.
Data pubblicazione: 5 luglio 2025
Osservatorio Istituzionale Comunitario – Centro Studi d’Europa – ISSN 2785-2695
