Per fast fashion si intende una produzione massiva di capi d’abbigliamento venduti a prezzi molto bassi, la cui distribuzione ed il riassortimento avviene in tempi brevissimi. Il fenomeno in questione comporta, però, due conseguenze non trascurabili: livelli di inquinamento notevoli e violazioni dei diritti umani dei lavoratori, ragion per cui a marzo 2022 la Commissione Europea ha annunciato di voler invertire la rotta e adottare un atteggiamento sostenibile e circolare del settore tessile da raggiungere entro il 2030.
La violazione dei diritti umani dei lavoratori all’interno delle grandi catene di abbigliamento è un fenomeno ormai risaputo. L’episodio emblema di questa prassi è il crollo del Rana Plaza avvenuto il 23 aprile 2013 a Dhaka, in Bangladesh: un edificio di otto piani ospitante cinque fabbriche tessili da cui si rifornivano alcune delle più grandi multinazionali del settore tessile; nell’incidente hanno perso la vita 1.138 persone e altre 2.500 ne sono rimaste ferite. La strage è stata più volte definita come annunciata ed evitabile, data la consapevolezza dell’inagibilità del complesso commerciale; ma se già le condizioni di lavoro rappresentavano una chiara violazione delle norme di sicurezza, la difficoltà nell’individuazione di un responsabile che ne è seguita è, per le vittime, un ulteriore negazione di diritti. Il deficit di accountability è infatti uno dei problemi principali legati all’industria del fast fashion, dove la struttura societaria delle attività di business si identifica come uno dei presupposti fondamentali per la creazione di tale gap; la frammentazione delle attività lungo articolate catene di approvvigionamento (c.d. supply chain) implica la presenza di numerosi attori statali e non statali che interagiscono nell’intero processo di produzione, creando una polverizzazione delle condotte e la difficoltà, se non impossibilità, di individuare un soggetto che sia responsabile per le violazioni dei diritti umani commesse1. Nel caso specifico del Rana Plaza, i ricorrenti individuavano come parte responsabile una nota azienda canadese che si riforniva presso il complesso commerciale in questione e che sostenevano avesse una politica aziendale di CSR (Corporate Social Responsibility), dunque un obbligo di protezione dei lavoratori di quella fabbrica. Il ricorso fu respinto dalla Corte dell’Ontario sulla base dei seguenti motivi: essendo un subfornitore di un fornitore, la parte convenuta non aveva alcun controllo diretto sulla fabbrica all’interno della struttura; la legislazione applicabile era quella del Bangladesh – e non quella dell’Ontario – che non prevedeva il c.d. duty of care; tra le vittime e l’impresa non sussisteva un legame di vicinanza sufficiente tale da attribuire la responsabilità alla società canadese2.
Secondo i report di Clean Clothes Campaign (CCC)3, la pandemia da Covid -19 ha acuito le problematiche già esistenti in tema di diritti sociali: 1,6 milioni di lavoratori tessili sono stati licenziati senza alcuna indennità di licenziamento, mentre in caso di blocchi o cancellazione degli ordini veniva pagata solo una piccola percentuale della loro normale retribuzione; le categorie più a rischio sono i soggetti assunti in maniera informale o temporanea, i quali non hanno accesso alle norme di protezione sociale, e gli iscritti ai sindacati, sempre più oggetto di violenza e repressione4.
Allo stesso modo, non è trascurabile l’impatto ambientale del fast fashion. Uno dei settori maggiormente colpito dall’industria tessile è quello idrico: la produzione di capi d’abbigliamento necessita di ingenti quantità d’acqua, si stima, ad esempio, che la produzione di una sola maglietta di cotone necessiti di 2.700 litri di acqua dolce; inoltre, processi come tintura e finitura sono responsabili del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile, mentre il lavaggio dei capi sintetici rilascia ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari e rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente5. Così come la produzione, lo smaltimento dei rifiuti tessili rappresenta un’importante fonte di inquinamento: a seguito di un aumento della quantità di prodotti acquistati da un solo individuo si è registrata, al contrario, una diminuzione delle donazioni dei capi d’abbigliamento; ad un consumo annuale di circa 26 kg di prodotti tessili da parte dei cittadini europei ne corrisponde lo smaltimento di soli 11 kg6.
Al riguardo, è fondamentale il ruolo del consumatore, il quale ha la possibilità e la responsabilità di scegliere prodotti che siano realizzati nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, lungo tutta la supply chain. Lo strumento europeo di certificazione di prodotti e servizi “green” è il marchio Ecolabel, il quale può essere assegnato solo a prodotti conformi alle disposizioni comunitarie in tema di sanità, sicurezza ed ambiente, rispondendo a criteri riguardanti – in generale – il consumo di energia, l’inquinamento delle acque e dell’aria, la produzione di rifiuti, il risparmio di risorse naturali e l’uso di sostanze che possano essere dannose per la salute umana7.
La strategia UE per tessuti sostenibili e circolari si propone di ottenere entro il 2030 un mercato tessile costituito da prodotti durevoli e riciclabili – in gran parte costituiti da fibre riciclate – e prodotti nel rispetto dell’ambiente e dei diritti sociali. L’obiettivo dell’Unione Europea è quello di porre fine al mercato del fast fashion e dirigersi verso un mercato interno ben funzionale in cui siano garantite la concorrenza leale ed il supporto ad investimenti, ricerca e innovazione nel campo della sostenibilità tessile. Le azioni chiave per la realizzazione di tale obiettivo includono l’introduzione di requisiti obbligatori ecocompatibili, il tracciamento dell’inquinamento da microplastiche, l’introduzione di un passaporto digitale del prodotto, l’estensione delle responsabilità al produttore e la spinta al riciclaggio e riutilizzo8.
L’autrice Chiara Cannalire garantisce l’autenticità del contributo, fatti salvi i riferimenti agli scritti redatti da terzi. Gli stessi sono riportati nei limiti di quanto consentito dalla legge sul diritto d’autore e vengono elencati di seguito. Ai sensi della normativa ISO 3297:2017, la pubblicazione si identifica con l’International Standard Serial Number 2785-2695 assegnato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche.
1)Cataldi, Giuseppe (a cura di), I diritti umani a settant’anni dalla Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite, Editoriale Scientifica, 2019.
2) Ibidem.
3) Clean Clothes Campaign è un network globale che si occupa della difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nell’industria tessile, raccogliendo oltre 235 organizzazioni operanti in 45 paesi.
4) Report: Still Underpaid, abitipuliti.org, 2021.
5) L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ambiente, europarl.europa.eu, 2020.
6) Ibidem.
7)De Chiara, Alessandra, Stakeholder engagement per strategie di sostenibilità, Giappichelli Editore, 2015. 8)Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions. EU Strategy for sustainable and circular textiles, ec.europa.eu, 2022.