La soluzione di “chiusura” delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2020 n. 28972).
Sommario: 1. Premessa; 2. I principi di tipicità e numerus clausus: dalle codificazioni liberali all’ordinamento repubblicano; 3. L’esperienza francese. Verso un superamento della tipicità? 4. La soluzione italiana: le Sezioni Unite ribadiscono la vigenza del principio di tipicità dei diritti reali in tema di “uso esclusivo di bene comune”.
1. Premessa.
La tipicità e il numerus clausus dei diritti reali sono tradizionalmente considerati principi ordinatori del modello romanistico-continentale della proprietà.
Tali principi trovano accoglimento in quasi tutti i moderni ordinamenti giuridici di civil law (Italia, Francia, Spagna, Germania) nella misura in cui rispondono a fondamentali esigenze di ordine pubblico economico, favorendo la certezza del diritto e la sicurezza della circolazione dei beni.
Il modello italiano della proprietà, in particolare, si ispira ad una logica antitetica rispetto a quella che informa la materia contrattualistica: mentre in quest’ultimo campo, infatti, il legislatore lascia ampi spazi all’autonomia negoziale con il solo limite della meritevolezza degli interessi perseguiti (art 1322), in tema di diritti reali è del tutto preclusa ai privati la possibilità di introdurre limitazioni al diritto di proprietà che non siano quelle espressamente previste dalla legge[1].
È tuttavia ben noto che una parte della dottrina italiana, traendo spunto da un dibattito inaugurato nell’esperienza d’Oltralpe, predica il vanificarsi dei principi di tipicità e di numerus clausus dei diritti reali quale conseguenza della progressiva dematerializzazione dell’oggetto della proprietà e dell’emersione di nuovi diritti parziari che hanno attenuato il carattere assoluto della proprietà e accentuato una labilità dei confini tra la proprietà e gli “altri” diritti reali e tra essi e i diritti personali[2].
Nell’esperienza francese, del resto, si discute da sempre dell’ammissibilità di un “diritto reale di godimento speciale” (droit réel de jouissance speciale) in deroga al principio di tipicità dei diritti reali.
Ne deriverebbe che i privati potrebbero dar vita per contratto a ogni genere di diritto, di natura reale o obbligatoria, purché nel rispetto dei principi inderogabili dell’ordinamento.
Di qui il dubbio se il principio di tipicità dei diritti reali possa dirsi effettivamente superato o se, al contrario, resiste alle mutevolezze del tempo.
Il tema è di recente tornato all’attenzione degli interpreti a fronte di una sentenza con cui la Cassazione a Sezioni Unite, chiamata a prendere posizione sulla natura giuridica del diritto di uso esclusivo di un bene condominiale, ha formalmente aderito al canone di tipicità dei diritti reali, riaffermandone il vigore e così negando ogni possibile profilo di realità al contratto costitutivo di un diritto d’uso esclusivo.
2. I principi di tipicità e numerus clausus: dalle codificazioni liberali ai tempi odierni.
Da un punto di vista definitorio, il principio del numerus clausus proibisce ai privati la possibilità di costituire in via negoziale figure di diritti reali ulteriori a quelle normativamente previste.
La tipicità, invece, costituisce un limite che le parti incontrano nella determinazione del contenuto del diritto reale tipico, che non può essere modificato.
Sebbene sia innegabile la stretta connessione tra i due principi, si tratta di aspetti che restano pur sempre distinti: mentre il principio del numerus clausus riguarda essenzialmente la fonte dei diritti reali; il principio di tipicità attiene non alla fonte, quanto piuttosto al contenuto, quindi alla disciplina[3].
L’origine di tali principi è generalmente ricondotta alle scelte ideologiche poste alla base delle codificazioni ottocentesche, a partire da quella francese del 1804, ove si era affermata un’idea paradigmatica di proprietà come forma di appartenenza individuale ed esclusiva[4].
In tale contesto, l’esigenza di tutelare la pienezza della proprietà era considerata sacra e inviolabile, quale reazione ad un regime proprietario di stampo feudale gravato da innumerevoli pesi e vincoli perpetui a favore di soggetti diversi dal proprietario. Pertanto, stabilire un limite rigido alla proliferazione di diritti reali minori, assumendoli come tipici, rispondeva all’esigenza di garantire «una più efficiente produzione agricola nel quadro di un sistema liberale e borghese»[5].
Questo aspetto comportava, come logica conseguenza, uno sfavore del legislatore nei confronti di qualsivoglia estrinsecazione dell’autonomia negoziale che potesse tradursi in una limitazione della proprietà stessa o comunque in una minaccia della stessa.
Successivamente, con l’avvento, nel nostro ordinamento, della Costituzione repubblicana si è assistito ad una vera e propria rivoluzione: da una proprietà sacra e inviolabile si è passati ad una proprietà funzionale o funzionalizzata, espressione della solidarietà umana applicata alle cose[6].
Questa concezione funzionale del diritto di proprietà ha segnato il passaggio da uno stato liberale ad uno stato sociale, sicché il diritto reale, da elemento che veniva visto come ostativo del pieno esplicarsi della libertà individuale, diventa uno strumento che inizia piano piano a realizzare l’uguaglianza sostanziale, trovando un riferimento costituzionale nell’articolo 2 Cost.
Volgendo lo sguardo ai tempi odierni, negli ultimi decenni si è assistito, da un lato, alla nascita di diverse figure caratterizzate dalla sicura presenza di alcuni elementi di realità (si pensi alla multiproprietà, al supercondominio, alle servitù reciproche); dall’altra, si è assistito alla espansione di vincoli contrattuali in grado di incidere sulla libera gestione o sulla destinazione dei beni (mediante per esempio il ricorso a negozi fiduciari, oppure negozi di destinazione, da ultimo all’uso esclusivo di bene comune), sconosciuti fino a qualche anno fa all’ordinamento giuridico italiano.
Proprio queste figure hanno avuto un merito importante: quello di rinvigorire nuovamente il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di diritti reali, dibattito incentrato sulla individuazione dei principi generali della materia.
Muovendo da tali premesse, è agevole comprendere come il principio di tipicità e il principio del numerus clausus siano diventati – sotto certi aspetti – principi anacronistici e, forse, superati.
3. L’esperienza francese: verso un superamento della tipicità?
Il principio di tipicità dei diritti reali è in fase di rivisitazione non solo nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale interno al nostro ordinamento ma anche in quello internazionale-europeo.
In Francia, ad esempio, il tema è al centro di proposte di riforma che propongono un superamento del principio in esame attraverso la possibilità, per il proprietario, di cedere alcune facoltà di godimento che compongono il suo diritto a prescindere dalla loro corrispondenza a diritti reali tipici.
La dottrina francese, infatti, da sempre si pone l’interrogativo se le figure di diritti reali tipici disciplinate dal legislatore costituiscono un numerus clausus o se, invece, le parti possono crearne altri nell’esercizio della loro autonomia[7].
La risposta negativa al quesito fa leva sull’art 543 del Code Civil, in base al quale si può essere titolari di un diritto di proprietà, o di un semplice diritto di godimento, o di un diritto a pretendere servizi fondiari[8].
L’impostazione codicistica francese, in sostanza, si rivela fedele al carattere della assolutezza della proprietà e ne ammette limitazioni solo in presenza di figure tipiche.
Rispetto a questo tradizionale modo di intendere la proprietà e i diritti reali, è da tempo in atto una progressiva relativizzazione dei principi che ne sono a fondamento.
L’origine del processo erosivo è da rinvenirsi in una sentenza resa nel 2012 dalla Corte di Cassazione francese (l’arret Maison de Poèsie)[9].
In tale occasione era accaduto che, in forza di una clausola contenuta in un contratto di vendita immobiliare, la fondazione venditrice aveva riservato per sé il diritto di godimento e l’occupazione esclusiva di un locale facente parte dell’immobile venduto. Dopo un lungo periodo di pacifica occupazione del locale da parte della venditrice, l’acquirente dell’immobile agisce in giudizio per chiedere la restituzione e il pagamento di un’indennità di occupazione, sostenendo che il diritto del venditore si era estinti, stante il decorso del termine trentennale previsto per il diritto di uso e di abitazione conferito a una persona giuridica, a norma del comb. Disp. degli artt 625 e 619 del Code Civil[10].
È evidente la peculiarità del caso: il diritto di godimento costituito a favore della venditrice su una porzione dell’immobile non aveva i caratteri dei diritti reali tipizzati dal legislatore. Pertanto, in omaggio al tradizionale principio del numerus clausus, la Corte di Appello di Parigi aveva accolto la domanda e ordinato la restituzione del locale all’acquirente, facendo leva sul duplice rilievo che le parti non avevano mai costituito un diritto reale tipico e che, comunque, esso non avrebbe potuto eccedere la durata dei trenta anni.
Tuttavia, la Cour de cassation riforma la sentenza dei giudici di merito e afferma il principio secondo cui il proprietario, nel rispetto delle regole dell’ordine pubblico, può costituire in favore dell’altra parte un diritto reale che attribuisce il beneficio di un “godimento speciale” del proprio bene.
L’orientamento inaugurato dalla Corte riprende un progetto di riforma del diritto dei beni elaborato dalla Associazione Capitant, presentato ufficialmente nel 2008 al Ministero di Giustizia francese e destinato – nell’intenzione dei suoi redattori – a sostituire il secondo libro del Code Civil[11].
Il progetto, in realtà, continua a far perno sul principio del numerus clausus dei diritti reali, aggiungendone però uno nuovo rispetto a quelli tradizionali (es. usufrutto, servitù, enfiteusi), ossia il diritto di godimento speciale (“droit réel de jouissance speciale”) con durata trentennale.
Si tratta, a ben vedere, di un diritto temporaneo, dai contorni vaghi e indefiniti e che lascia ampia autonomia alle parti.
Di qui il suo difficile inquadramento, stante la contraddizione tra la previsione di un diritto reale “tipico” e di un contenuto atipico.
Senza scendere in ulteriori dettagli, occorre però ricordare che la Corte di Cassazione francese sembra attualmente essere ritornata sui suoi passi, negando la possibilità di creare diritti reali atipici. Inoltre, dopo l’iniziale entusiasmo, anche la dottrina francese si è avveduta che ammettere un diritto a “godimento speciale” conduceva a porre in discussione le fondamenta stesse del modello di proprietà alla base del codice napoleonico.
Ciò nonostante, non vi è dubbio che il caso Maison de Poèsie abbia provocato una profonda crisi del principio di tipicità, dando vita ad un acceso dibattito.
4. La soluzione italiana: le Sezioni Unite ribadiscono la vigenza del principio di tipicità dei diritti reali in tema di “uso esclusivo di bene comune”.
In Italia, il dibattito sul fondamento sistematico e razionale dei principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali è di recente tornato all’attenzione degli interpreti a fronte di una sentenza con cui la Cass a Sezioni Unite è stata chiamata a prendere posizione sulla natura giuridica delle clausole di “uso esclusivo di bene comune” in ambito condominiale.
Si tratta, in particolare, di pattuizioni assai diffuse nella prassi e volte a soddisfare un duplice interesse: da un lato, l’ambizione del titolare dell’unità immobiliare beneficiata a vedersi attribuita in via esclusiva una stabile facoltà di godimento della parte comune dell’edificio; dall’altro, il vantaggio per la compagine condominiale di non sobbarcarsi delle relative spese di gestione, mantenendo comunque un residuale controllo sul bene, altrimenti precluso se la parte comune fosse oggetto di un definitivo trasferimento in proprietà.
Ciò posto, non basta richiamare l’origine pattizia dell’uso esclusivo per ritenerlo ammissibile nel nostro ordinamento. Bisogna indagarne la natura.
È necessario, cioè, chiarire se quel diritto, esercitato in conseguenza di un accordo ex art 1322, dia vita ad un diritto reale tipico o atipico (ammesso e non concesso che vi sia tale ultima possibilità) oppure a un diritto obbligatorio (diritto personale di godimento).
Chiaramente, accedere all’una o all’altra teoria comporta conseguenza di non poco conto.
Basti solo immaginare all’intima essenza dei diritti reali (immediatezza, assolutezza, inerenza) per comprenderne la portata e la profonda differenza rispetto ai diritti obbligatori (sottoposti alla regola della relatività degli effetti del contratto, della non trascrivibilità, della tutela mediante azioni esclusivamente personali).
Ciò posto, varie sono state le ricostruzioni proposte in merito alla natura giuridica da riconoscersi all’uso esclusivo del bene comune.
Secondo un primo orientamento[12], inaugurato da una pronuncia del 2017, l’uso esclusivo non può ricondursi al diritto reale d’uso ex art. 1021 c.c. in quanto costituirebbe semplicemente in una particolare modalità di godimento del bene comune che, in deroga agli artt. 1102 e 1117 c.c., spetterebbe solo a uno dei comunisti (artt. 1126 e 1122 c.c.). Dunque, non vi sarebbe contrasto con i principi del numerus clausus e di tipicità dei diritti reali perché a cambiare è solo il riparto delle facoltà di godimento[13], atteggiandosi l’uso esclusivo a manifestazione del diritto del comunista o del condomino su parti comuni, senza tuttavia intaccare l’appartenenza di dette parti alla collettività.
Di segno opposto, un secondo e più recente orientamento che individua nella facoltà di godimento una caratteristica intrinseca e essenziale della comproprietà, suscettibile di subire modificazioni solo attraverso la costituzione di un diritto reale esclusivo in favore dell’usuario[14]. Tale possibilità è, tuttavia, preclusa perché ipotizzare la costituzione di un diritto reale atipico, esclusivo e perpetuo svuoterebbe di significato il contenuto della proprietà, dando vita a un diritto incompatibile con l’ordinamento.
Alla luce del rilevato contrasto giurisprudenziale, con ordinanza di rimessione del 2 dicembre 2019, n. 31420, la Seconda Sezione civile della Cassazione ha sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite la questione circa la natura del diritto di uso esclusivo su una parte comune.
Le Sezioni Unite[15], in una assai articolata decisione, passano in rassegna oltre cinquant’anni di precedenti giudiziali, mettendo a fuoco il tema attraverso un iter logico-motivazionale teso, più che a spiegare in cosa consista tale diritto, a soffermarsi dettagliatamente su cosa esso non sia.
La Suprema Corte esclude, anzitutto, che la clausola di cui si discute possa ricondursi ad una delle figure tipiche di diritto reale di godimento, come la servitù o il diritto d’uso.
In particolare, a differenza del diritto reale di cui agli artt. 1027 e ss. c.c., il diritto di uso esclusivo consiste non già nella semplice creazione di un peso sulle cose comuni, ma nel sostanziale svuotamento del diritto di proprietà sulle stesse[16].
L’uso esclusivo non può neppure ricondursi al diritto reale d’uso perché l’istituto di cui agli artt. 1021 e ss. consente al suo titolare di servirsi della cosa per quanto occorra ai bisogni suoi e della sua famiglia, ma sussisterebbero i limiti della non cedibilità e della temporaneità, incompatibili con l’uso esclusivo perpetuo e trasferibile.
La Corte si interroga anche sul “se” e “come” il diritto di uso esclusivo di una parte comune possa armonizzarsi con la regola basilare dettata dall’art. 1102 c.c. Secondo il Supremo Consesso, l’uso, quale sintesi di facoltà e poteri, è «parte essenziale del contenuto intrinseco, caratterizzante, del diritto di comproprietà, come di quello di proprietà, a tenore del 932 cc.»[17], tanto è vero che, nel caso della comunione, si è ritenuto ammissibile un “uso” più intenso a vantaggio di alcuni comunisti, ma mai del tutto vietato. Nell’uso esclusivo, invece, «proprio perché esclusivo, si elide (…) il collegamento tra il diritto ed il suo contenuto, concentrandosi l’uso in capo ad uno o alcuni condomini soltanto»[18]. Non è, infatti, un caso se in proposito si è spesso parlato di uso quasi“uti dominus”.
Tale elisione, tuttavia, è ammissibile soltanto in presenza di un diritto reale minore. E poiché, come visto, il diritto d’uso esclusivo non può inquadrarsi in alcuni dei diritti reali minori previsti dal codice, resta da chiedersi se tale elisione possa essere il frutto dell’autonomia privata[19].
In altre parole: i privati possono costituire per contratto un diritto reale minore atipico?
Le Sezioni Unite escludono categoricamente che l’istituto in commento possa ricondursi a un diritto reale atipico del quale, in radice, negano la configurabilità.
Due le ragioni alla base di tale assunto: il principio del numerus clausus e quello, sovrapponibile ma distinto, di tipicità dei diritti reali. In forza del primo, solo la legge (e non il privato) può istituire figure di diritti reali; per effetto del secondo, i privati non possono alterare, snaturandolo, il contenuto dei diritti reali tipicamente previsti.
Contro chi sostiene la possibilità di superamento dei suddetti limiti per non essere positivamente codificati da alcuna norma, la Corte oppone che un divieto esplicito sarebbe del tutto superfluo in un sistema che ha già minuziosamente tipizzato e regolato gli iura in re aliena (cosa che sarebbe poco comprensibile ove se ne potessero creare di atipici in numero indefinito). Inoltre, al centro della disciplina del contratto vi è pur sempre l’art. 1372 c.c. che sancisce il principio di relatività dei suoi effetti (valevoli, di regola, solo inter partes).
Ne deriverebbe che: ammettere la costituzione di diritti reali atipici, per contratto, significherebbe incidere non solo sulle parti, ma anche sugli acquirenti del bene. In questo modo, si finirebbe per vincolare dei terzi estranei ad un regolamento negoziale stabilito da altri, in nome dell’autonomia contrattuale. Tale risultato, chiarisce la Corte, confligge con l’art. 1372 c.c. per cui il contratto non può produrre effetti verso i terzi, se non nei casi stabiliti dalla legge.
A corroborare tale ricostruzione intervengono anche: l’art. 42 Cost., ove è prevista una riserva di legge in ordine ai modi di acquisto, di godimento e ai limiti della proprietà privata; il generale disfavore che l’ordinamento mostra nei confronti delle limitazioni incisive al diritto di proprietà, come dimostrato dai limiti imposti dall’art. 1379 c.c. al divieto convenzionale di alienare; l’art. 2643 c.c. che contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione; la costante giurisprudenza di legittimità, anche in materia di tipicità di obbligazioni propter rem e oneri reali.
Infine, i principi del numerus clausus e della tipicità non incontrano ostacoli nell’ordinamento comunitario, giacché l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea lascia “del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”.
5. Conclusioni.
La conseguenza ineludibile della decisione delle Sezioni Unite è che i principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali, inespressi ma indiscussi, devono considerarsi, tutt’oggi, insuperabili per esigenze di ordine pubblico e di tutela dei terzi.
Difatti, il principio di diritto enunciato nella sentenza recita: «la pattuizione avente ad oggetti la creazione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo di concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio, insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi»[20].
Alla luce di quanto sin qui esposto, l’osservazione che può essere tratta è che la regola della tipicità, lungi dall’essere un retaggio di una concezione ormai lontana nel tempo e non più adeguata ai tempi attuali, “resiste” e riafferma la sua valenza di criterio ordinatore della materia dei diritti reali.
Inoltre, anche l’esperienza francese ha dimostrato che la tipicità, ad onta delle molteplici rivisitazioni critiche che ne pongono in discussione l’utilità e l’attualità, continua a rappresentare un limite difficilmente superabile perché a garanzia della sicurezza delle contrattazioni e dei traffici giuridici.
Del resto, tale conclusione è coerente con il modo di concepire le “forme di proprietà” nel modello romanistico-continentale, che continua ad essere connotato da una nozione di proprietà a carattere assoluto, esclusivo, unico e indivisibile (sia pure con dei temperamenti).
Francesca Vitiello per la Rivista Osservatorio Istituzionale-Centro Studi d’Europa, identificata dall’ISSN 2785-2695 e iscritta nel registro dei periodici con Decreto del Tribunale di Roma n.44 del 29 marzo 2022.
[1] M. Santise, Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Giappichelli, 2021, p. 445.
[2] Cfr. A. Gambero, Note sul principio di tipicità dei diritti reali, in L. Cabella Pisu-L.Nanni, Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta, Padova 1998, p. 223 ss.
[3] Per l’orientamento favorevole alla distinzione concettuale tra i due principi, tra gli altri, cfr. M. Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, Vo. I, Giuffrè, Milano, 1940, p. 160; M. Comporti, Contributo allo studio del diritto reale, Giuffrè, Milano, 1977, p. 293.
[4] L. Moccia, Riflessioni sull’idea di proprietà, in R. trim. d. proc. Civ., 2008, p. 21.
[5] Cfr. U Morello, Trattato dei diritti reali, Vol. I Proprietà e possesso, Giuffrè, Milano, 2008, p. 69.
[6] L. Barassi, Diritti reali limitati, Giuffrè, Milano, 1937, p. 50.
[7] L. D’Avout-B. Mallet-Bricout, La libertè de creation des droits reels aujourd’ hui, in Rec. Dalloz, 2013
[8] «On peut avoir sur les biens, ou un droit de propriété, ou un simple droit de jouissance, ou seulement des services fonciers à prétendre» (art 543).
[9] Cass., III civile, 31 ottobre 2012, in Rec. Dalloz, 2012.
[10] Cfr. E. Calzolaio, La tipicità dei diritti reali: spunti per una comparazione, in RDC, 2016, p. 1084.
[11] Una prima versione del progetto, diffusa nel 2008, è consultabile sul sito https://www.henricapitant.org/actions/offre-de-reforme-du-droit-des-biens-2009/.
[12] Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301 in Rivista del Notariato, 2018, 6, II, 1191; poi seguita da Cass. 10 ottobre 2018, n. 24958 in Diritto & Giustizia, 2018, 11 ottobre; Cass. 31 maggio 2019, n. 15021 in Condominioelocazione.it, 18 settembre 2019 con nota di A.Nicoletti; Cass. 4 luglio 2019, n. 18024 in dejure Giuffre; Cass. 3 settembre 2019, n. 22059 in dejure Giuffre.
[13] Tale riparto è, infatti, dettato dal titolo e non presunto dalle norme di legge.
[14] Cass., Sez. II, 9 gennaio 2020, n. 193.
[15] Cass, Sez un, 17 dicembre 2020 n. 28972
[16] «Se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l’uso esclusivo di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro», Cass, Sez. Un., cit., p. 27.
[17] Cass, Sez. Un., cit., p. 19.
[18] Cass, Sez. Un., cit., p. 20.
[19] Indicazioni di senso contrario non possono esser tratte né dall’art. 1126 c.c., né dalla riforma del condominio, né dal D.lgs. 20 maggio 2005, n. 122, art. 6, co. 2, lett. b), che obbliga il costruttore a indicare nel contratto relativo a futura costruzione le parti condominiali e le pertinenze esclusive.
[20] Cass, Sez. Un., cit., p. 33.