La strada intrapresa dall’Unione Europea nell’ottica del Green Deal

L’Unione europea è il motore principale della lotta al cambiamento climatico e del processo di sostenibilità ambientale a livello internazionale. La strada verso un’Europa (e un mondo) sostenibile non è discontinua, tuttavia, non mancano gli errori, le battute d’arresto e i limiti imposti da una diversità, spesso troppo grande, tra gli stati membri. L’impegno dell’Unione europea parte dal 1972, quando il Consiglio europeo ha constatato la necessità di una politica comunitaria ambientale. È proprio con l’Atto Unico Europeo, nel 1987, che si costituisce la prima base giuridica per una politica ambientale comunitaria. Con il Trattato di Maastricht (1991), l’ambiente diventa un settore ufficiale della politica europea. Infine, con il Trattato di Lisbona (2009) si aggiunge l’obiettivo specifico di combattere i cambiamenti climatici e di perseguire uno sviluppo sostenibile. La politica ambientale è regolata dagli articoli 11 e 191-193 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La competenza è di tipo concorrente, ciò implicherebbe una continua cooperazione tra gli stati membri e le istituzioni europee. Tuttavia, le capacità di azione dell’UE sono limitate dal principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà è uno dei pilastri portanti dell’Unione: permette alle istituzioni europee di intervenire in questioni che possono essere meglio regolate a livello europeo, piuttosto che lasciare tutti in mano agli stati membri. Risulta essere scontato che per la politica ambientale una regolamentazione a livello unitario è migliore: senza cooperazione e collaborazione non ci possono essere progressi. La politica dell’Unione in materia ambientale si fonda sui principi della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione dell’inquinamento alla fonte, nonché sul principio del “chi inquina paga”. Se, invece, osserviamo l’impegno dell’Unione nell’ambito dell’UNFCCC1, possiamo comprendere la sua importanza a livello diplomatico. La volontà di aiutare concretamente il pianeta si evince dalla grande delusione dell’Unione dopo che la Conferenza di Rio non portò a nessun impegno effettivo. Dopo la scottatura di Rio, l’Ue si impegna il più possibile a Kyoto2, facendo sì che la Russia entrasse a far parte del trattato. Evidenza della volontà di raggiungere gli obiettivi di Kyoto sono una serie di azioni portate avanti dall’UE, tra cui l’istituzione del primo (e ad oggi più grande) mercato di CO2 del mondo: l’EU ETS (European Union Emission Trading System). La strategia diplomatica dell’Unione sembra perdere di vivacità alla Conferenza di Copenaghen, infatti, davanti alla retorica del neopresidente degli Stati Uniti, Barack Obama, gli stati europei vengono oscurati. Lasciando agli USA il ruolo di leader, l’UE interpreta il mero ruolo di “mediatore”3 tra i paesi in via di sviluppo e i paesi industrializzati. Tra le cause del fallimento, sicuramente vi è l’incapacità dell’Unione di agire come un blocco unico e di immedesimarsi nei panni dei paesi del terzo mondo e in via di sviluppo. Tuttavia, l’Unione impara da questi errori e subito inizia un processo che porterà al successo della Conferenza di Parigi. Intrattenendo discussioni con diversi paesi del mondo, l’UE diventa un vero e proprio leader, dimostrando come un’economia a basse emissioni non è un’economia fallimentare. Tra i progetti più ambiziosi vi è la High-Ambition Coalition: una coalizzazione tra i paesi europei e settantanove paesi tra cui i paesi caraibici, africani, le isole del pacifico e, aggiuntisi dopo un lungo periodo di esitazione, gli Stati Uniti. L’Ue ha fatto sì che, alla luce degli Accordi di Parigi, questi paesi accettassero di: prendere parte ad un accordo vincolante, progettare una risposta ambiziosa rispettando le nuove scoperte scientifiche sul clima e l’ambiente e istituire un meccanismo quinquennale di revisione. Mentre ONG e organizzazioni ambientaliste denunciano un impegno ancora troppo poco effettivo, non si può negare che gli Accordi di Parigi abbiano segnato la storia, essendo il primo accordo legalmente vincolante sui cambiamenti climatici.

La strada che porta al più ambizioso dei progetti europei, il Green Deal, è segnata da tante azioni nelle quali l’UE si è impegnata duramente, che dimostrano un progressivo aumento dell’ambizione europea. Tra i primissimi segnali di un maggiore impegno vi è la decisione, nel 1973, di istituire dei programmi di azione (PAA) pluriennali, che contengono nuove proposte legislative, impegni ed obiettivi futuri per la questione ambientali. Nel 2019 è stato pubblicato l’ottavo piano, basato sul Green Deal europeo. Chiaro esempio della volontà dell’Unione di imporsi come leader è stato anche l’istituzione del Green Diplomacy Network, un’iniziativa che non solo avrebbe reso più coeso l’approccio europeo alla questione ambientale, ma che avrebbe permesso all’Unione di istituire un forum di discussione ed iniziative bilaterali coi paesi terzi. Quest’attività, soprattutto di sensibilizzazione, è l’esempio dell’Unione come potere normativo, e dimostra l’influenza del suo lavoro, soprattutto sui paesi BRICS4 (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Adottato nel 2009, ma valido dal 2013 al 2020, il Pacchetto 20-20-20 è un delle azioni più trionfanti dell’Ue. Il pacchetto prevede una serie di leggi che aiuterebbero l’UE a raggiungere tre obiettivi: una riduzione del 20% di emissioni di gas a effetto serra, il miglioramento del 20% dell’efficienza energetica e ricavare il 20% del fabbisogno energetico dalle fonti rinnovabili5.  Gli obiettivi complessivi a livello europeo, tuttavia, non rispecchiano gli obiettivi nazionali, che sono diversificati a seconda di una serie di parametri, tra cui il PIL nazionale. Compromesso ragionevole, considerate le diverse situazioni di partenza dei paesi (basti pensare alla dipendenza dalle fonti non rinnovabili di alcuni paesi dell’Europa orientale). Dai report periodici forniti dalla Commissione europea, l’UE risulta essere in linea coi suoi obiettivi. Solo le emissioni di gas serra sono diminuite del 24% dal 1990 al 20196, un calo per cui bisogna ringraziare soprattutto il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE. L’interesse dell’Unione europea verso la questione climatica deriva dalla forte interconnessione di questa con il concetto di sicurezza e di crescita economica sostenibile. La politica ambientale europea è fortemente integrata alla sua politica estera e di sicurezza: problemi ambientali minacciano non solo le vite umane, ma anche la società e le economie. Proprio la Strategia Globale Europea del 2016 definisce il cambiamento climatico come un “moltiplicatore di minacce”7. Non bisogna sorprendersi, quindi, per la pubblicazione del Green Deal nel dicembre del 2019, da parte della neoeletta Commissione europea. Un piano verde che non solo aiuterà l’Unione a diventare il primo continente a raggiungere la neutralità climatica nel 2050, ma che, secondo le stime della commissione, porterà un forte sviluppo economico, completamente sostenibile. Nonostante il progetto sembra essere privo di difetti, non è difficile individuarne alcuni, che comporteranno una serie di effetti geopolitici, non del tutto positivi.

Il Green Deal è un piano sviluppato su quattro pilastri principali: una tariffa per il carbone, investimenti sostenibili, nuove politiche per l’industria e una transizione giusta e sostenibile. Per quanto concerne il primo punto, la Commissione progetta di istituire un prezzo unico per il carbone, ampliando, inoltre, i settori in cui l’ETS EU sarà attivo. Una tariffa unica, economicamente efficiente, che, tuttavia, graverebbe sui paesi europei che emettono di più. Questi paesi, come la Polonia, sono anche i paesi più poveri del blocco europeo. Ciò innescherebbe un processo di delocalizzazione della produzione, che porterebbe al cosiddetto carbon leakage8. Per la Commissione, la soluzione sarebbe una border tax, che renderebbe tutti i prodotti consumati nell’UE rispettosi degli obiettivi di riduzione delle emissioni. Prodotti, la cui produzione è ad alta intensità di carbonio, saranno tassati prima di poter essere venduti nell’Unione, ciò, secondo la Commissione, spingerà anche i paesi terzi a decarbonizzare. In secondo luogo, gli investimenti sostenibili sono stati considerati il motore della transizione verde. La Commissione ha già annunciato la necessità, per tutti i settori di produzione europea, in particolare quelli ad alta intensità di risorse non rinnovabili, di conformarsi ai dettami dell’economia circolare. Il terzo punto, relativo alle nuove politiche industriali, fa riferimento alla necessità di rendere l’industria europea competitiva ed ecosostenibile. Per vincere la sfida contro i due grandi egemoni, la Cina e gli USA, l’Unione dovrà impegnarsi nel campo dell’energia e delle nuove tecnologie di costruzione. Per la commissione il primo passo è un investimento nei campi di ricerca e sviluppo, che, però, sia coordinato tra gli stati membri. In seguito verranno apportate delle modifiche al mercato interno europeo, come l’inserimento di nuovi standard ambientali, tassazioni energetiche uniche e misure di sostegno per le tecnologie green. L’ultimo punto prevede l’istituzione di un meccanismo, il Just Transition Mechanism (JTM), per compensare gli effetti depressivi della transizione verde. A tal proposito è stato anche disposto il Just Transition Fund (JTF), un fondo che finanzierà i settori soggetti a forte disoccupazione, come quelli di produzione di carbone, nonché le industrie ad alta intensità di gas serra. Il Green Deal è un piano molto ambizioso, che tuttavia avrà impatti negativi su alcuni dei partner dell’Unione. L’UE si sta preparando per cambiare radicalmente la propria economia e i propri modelli di consumo. Il primo effetto riguarda gli investimenti e il commercio europeo nel settore dei prodotti energetici: nel 2019 il 60% delle importazioni dalla Russia riguardavano prodotti energetici. Una graduale, ma tuttavia massiccia, riduzione di questi flussi comporterà un cambiamento nelle relazioni non solo con la Russia, ma anche Algeria e Norvegia. Questi tre paesi sono anche i maggiori esportatori di gas naturali nell’Unione. La transizione verde europea potrebbe non solo modificare le relazioni con questi paesi, ma anche destabilizzarli economicamente e politicamente. In secondo luogo, il 20% delle importazioni mondiali di petrolio grezzo sono da rimandare all’UE. Il calo della domanda derivante da un maggiore uso delle fonti rinnovabili, avrà un forte impatto sul mercato globale, con una probabile depressione dei prezzi. Inoltre, la transizione prevedrà un aumento di prodotti e materie prime necessarie per una produzione ecologica e tecnologie verdi. Di alcune materie, necessarie per la produzione di batterie, la Cina è il più grande produttore mondiale, nonostante non sappia sfruttare al meglio questa posizione. Allo stesso modo i paesi del sud del mondo, produttori di idrogeno verde, troveranno un nuovo importatore nell’Unione europea della transizione ecologica. Indubbiamente, inoltre, il Green Deal avrà un forte impatto sulla competitività internazionale europea. Come già evidenziato, l’imposizione di una tariffa unica per il carbone comporterebbe in primo luogo la rilocalizzazione della produzione, con conseguente carbon leakage, rendendo gli sforzi di decarbonizzazione dell’UE inutili. Ma l’istituzione di una border tax, così come pensata dalla Commissione, si scontra con i dettami del commercio internazionale, su cui vigila l’OMC. Per l’organizzazione, l’istituzione di una carbon tax potrebbe essere vista come una misura protezionistica da parte dell’Unione. In più, come ribadito più volte dall’UNFCCC, le misure atte a combattere il cambiamento climatico, sia unilaterali che non, non possono essere una giustificazione per una discriminazione o restrizione al commercio internazionale9. Questa velata politica protezionistica dell’Unione europea è stata fortemente criticata anche dai paesi in via di sviluppo, i cui prodotti sono spesso derivanti da una produzione ad alta intensità di carbonio. Per questi paesi, l’Unione sta togliendo ai consumatori la possibilità di decidere quali prodotti acquistare tra quelli economici (ma non ecosostenibili) e quelli locali, più costosi e verdi. Inoltre, paesi terzi hanno denunciato l’insistenza dell’UE nel voler trasferire i suoi standard e le sue politiche ecosostenibili all’estero. Un caso recente riguarda il presidente francese Macron, il quale ha minacciato di non ratificare l’accordo tra Unione europea e Mercosur, sostenendo che il Brasile sta violando i suoi impegni internazionali sull’ambiente. Un palese esempio di come l’Unione europea stia tentando, in tutti i modi, di imporsi come leader e di esportare le sue politiche, tuttavia, questa sua mossa dev’essere graduale e calibrata a seconda dei partner internazionali con cui ha a che fare. Per arginare, e anche evitare, gli effetti negativi della transizione verde dettata dal Green Deal, l’Unione europea può portare avanti delle azioni atte a gestire le ripercussioni geopolitiche e azioni per rafforzare la sua leadership a livello mondiale. Il processo che porterà l’UE alla neutralità climatica sarà lungo e progressivo, quindi le istituzioni avranno il tempo di poter strutturare una strategia forte per arginare i danni. Ad esempio, per aiutare i paesi esportatori di gas, petrolio e carbone, come l’Algeria, l’Arabia Saudita e la Russia, l’Europa dovrà creare una strategia diversa per ogni paese, a seconda delle necessità, promuovendo progetti di cooperazione che non siano astratti. L’UE ha, quindi, tutte le carte in regola per potersi porre come leader della transizione ecologica internazionale, trainando con sé alleati e paesi terzi. C’è bisogno, però, di una maggiore precisione nel collegamento tra la politica ambientale e la politica estera europea, l’una non potrà andare a discapito dell’altra.

L’autrice Benedetta Miranda garantisce l’autenticità del contributo, fatte salve le citazioni di scritti redatti da terzi. Le stesse sono riportate nei limiti di quanto consentito dalla legge sul diritto d’autore e vengono elencate di seguito. Pertanto, l’Autrice è l’unica responsabile dell’eventuale violazione commessa con l’opera in merito ai diritti di terzi.

1) L’UNFCCC è la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, istituita nel 2012 a Rio;

2) A Kyoto, nel 1997, durante la terza Conferenza delle Parti, venne firmato il famoso Protocollo di Kyoto;

3) Cross, Mai’a K.Davis. Partner at Paris? Climate Negotiations and Transatlantic Relations. Journal od European Integration, 2018;

4) Acronimo riferito alle cinque più grandi economie emergenti, caratterizzate da una forte crescita del PIL alla fine del XX secolo;

5) Dal sito dell’Unione europea: https://ec.europa.eu/clima/policies/strategies/2020_it;

6) Dal sito dell’Unione europea: https://ec.europa.eu/clima/policies/strategies/progress_it;

7) Bremberg, Niklas. EU Foreign and Security Policy on Climate-Related Security Risks. Stockholm International Peace Research Institute, 2019;

8) Ci si riferisce al possibile trasferimento di emissioni, fenomeno che può verificarsi nel caso in cui le imprese, per evitare limitazioni imposte dai propri paesi, decidano di trasferire la propria produzione in paesi che attuano politiche meno rigorose sull’emissioni di gas nocivi;

9) Bochkarev, Danila. The European Green Deal: Saving the Planet or Protecting the Markets?. IAI, 2020.