Ordinamento internazionale: dogma alla luce delle decisioni di guerriglia

L’analisi dell’invasione russa in Ucraina soggiace ad un raffronto distinto rispetto ad altre fattispecie giuridiche. Mentre per le altre, in precedenza analizzate, il confronto si poneva tra il diritto in senso stretto e le scienze esatte, qui il diritto si misura con le scienze sociali.

Tale confronto risulta connotato da una sorta di “antitesi” se si tiene conto che da un lato vi sono le discipline storiche e politiche e dall’altro le discipline giuridiche, o meglio, l’ordine giuridico.

I giuristi ben sanno che la spiegazione causale e la spiegazione storica si pongono su due piani diversi di analisi.

Storicamente, anche peccando di imprudenza, si è ritenuto che, dopo il conflitto della Guerra Fredda che interessò Stati Uniti e Unione Sovietica, la vicinanza tra i due mondi non si sarebbe più riproposta. 

Il fenomeno dell’invasione territoriale esiste ancora oggi e deve essere neutralizzato alla luce del fatto che una guerra di aggressione – o meglio – di annessione, nel terzo millennio è impensabile.

È una di quelle fasi storiche in cui il dovere giudico deve dominare la realtà/essere predominante sulla realtà fattuale. Tale dominazione risulta alquanto necessaria se si tiene conto che spiegazione giuridica e spiegazione storica si incontrano in un punto preciso: quello dei Trattati, che sia Russia ma anche Cina (sua simpatizzante) hanno sottoscritto.

L’assunto di questa affermazione muove da una ricostruzione del contesto internazionale.

Quando si parla di guerra, si parla del rapporto tra diritto e forza.

Antitetici per definizione, ma di fatto conviventi.

Il diritto deve essere inteso come sistema ordinatore dei rapporti, fondato su regole ispirate alla migliore razionalità del momento storico (antitesi della forza); soprattutto se si parte dalla considerazione che il principio dei principi è quello dell’Accordo, quale negazione della forza ed espressione del consenso. Nello stesso tempo, però, il diritto si incanala necessariamente lungo il binario della forza per far rispettare le regole ordinamentali. È quanto accade, ad esempio, nell’esecuzione civile, o nell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione. Nonostante sia inteso come sistematicità o sistematizzazione della realtà, quest’ultima è, tuttavia, dominata dalla irrazionalità e dalla forza. Ed è per questo che la convivenza tra diritto e forza risulta difficile se i due elementi vengono intesi in maniera antitetica.

La forza, nel diritto, si rappresenta come la legge della giustizia. 

Il rapporto tra diritto e forza a livello internazionale è ancora più complesso in quanto non è coniato secondo regole giuridiche, ma piuttosto sancito nel c.d. “diritto internazionale generalmente riconosciuto” ovvero “Usus1

Nel diritto internazionale generalmente riconosciuto, il divieto all’uso della forza è riconosciuto, attraverso le codificazioni, come principio superiore. Nella dottrina internazionalista, intorno a tale principio, si configurano due teorie che cercano di chiarire la legittimazione giuridica del divieto. La prima considera il principio come di carattere superiore, in quanto intrinseco nel diritto in senso stretto (principio generale dell’Accordo). La seconda teoria, invece, fa rientrare il divieto in una serie di norme inderogabili del diritto internazionale di natura imperativa come, ad esempio, le norme pattizie. È questa seconda tesi che trova più consensi. Il perché si comprende dalla lettura di alcune norme fondamentali dei Trattati.

L’art. 53 della Convenzione di Vienna prescrive che “È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”. Dunque, per norma imperativa si intende una norma accettata e riconosciuta come inderogabile. E ancora, l’art. 64 afferma che “Qualora sopravvenga una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che contrasti tale norma diventa nullo ed ha termine”.

Queste disposizioni dettano un principio di carattere generale, prevalente su qualsiasi giustificazione addebitabile dalla Russia alla scelta di invadere il territorio indipendente dell’Ucraina.

Allo stesso tempo tale lettura è alla base dell’orientamento a cui si fonda la cultura giuridica dell’Occidente.

Il preambolo dello Statuto recita “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra [..] a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto

degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti […]”. Da questo inciso iniziale si comprende quale sia la finalità della Carta e quella dei firmatari aderenti, ed invero, gli articoli successivi non fanno altro che richiamare termini quali “mezzi pacifici” o “astensione dalla minaccia o uso della forza”.

Tali disposizioni, anche se non direttamente costitutive delle fonti internazionali, sono considerate ricognitive del diritto internazionale, come sostenuto nella sentenza della Corte Internazionale di Giustizia in occasione del giudizio sul caso Nicaragua c. Stati Uniti del 1986.4  

La Russia, aderendo a tali principi, sia attraverso la sottoscrizione dello statuto della Carta delle Nazioni Unite, sia facendo parte del Consiglio di sicurezza internazionale, sembra trovarsi nella condizione di completa inosservanza del principio di non contraddizione, violando precetti che essa stessa si era impegnata a rispettare e a far rispettare (soprattutto, con la partecipazione al Consiglio di sicurezza5).

L’attuale posizione russa potrebbe legittimarsi soltanto in una visione fattuale del diritto in assenza di fonti istituzionalizzate. 

Il limbo di incertezza ordinamentale in cui la Russia poteva trovare legittimazione per un’azione violenta non esiste. Questa riflessione viene confermata dall’intervento tenuto dal Presidente della Nazione – più per l’opinione pubblica – che giustifica l’aggressione contro il popolo ucraino definendola una “Operazione speciale” in difesa di accordi internazionali stipulati con le Repubbliche (da poco così riconosciute dalla Russia) Donetsk e Lugansk. 

Si potrebbe in quest’ottica legittimare una aggressione difensiva, se si rientrasse però in quelle eccezionali fattispecie codificate dove il divieto all’uso della forza è superabile, anche se lo Statuto parla di mezzi pacifici e mai di mezzi violenti. 

Le ipotesi eccezionali sono disciplinate nello Statuto agli articoli 51, 41, 42 e 53 co. 1 6, casi in cui il divieto all’uso della forza soccombe dinanzi alla necessità di una legittima difesa individuale e collettiva, previa autorizzazione del Consiglio nazionale di sicurezza.

Vi sono poi due eccezioni non espressamente disciplinate, ma ampiamente avvallate dalla dottrina internazionale: quella dell’intervento umanitario e dell’intervento preventivo. Si è fatto ricorso a tali interventi nel 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelle per aggredire l’Afghanistan supponendo che il network organizzativo fosse di suo dominio e nel 2003 contro l’Iraq supponendo che stesse celando un progetto di guerriglia sussidiato dall’utilizzo di armi di massa.

Risulta evidente come l’invasione russa non rientri in tali ipotesi legittimanti un intervento armato in quanto nell’ambito del diritto naturale di autodifesa è ammesso solo in presenza di una effettiva aggressione. Qui non c’è una situazione di aggressione, in extremis si parla conflittualità permanente con l’Ucraina. Non c’è quindi una giustificazione sul piano internazionalista, come il Presidente russo ha dichiarato di recente, ma soltanto un connotato di conquista nelle sue dichiarazioni. 

Tali considerazioni inducono ad affermare che l’aggressione russa, oltre che violativa dello Statuto della Carta delle Nazioni Unite, delle norme di jus cogens, del divieto di uso della forza, si è macchiata e continua a macchiarsi di crimini internazionali previsti dallo Statuto della raccolta penale internazionale. Quest’ultima fonte7, afferma la dottrina internazionale, rientra a pieno titolo in quelle norme non scritte la cui adesione viene addebitata per via indiretta da parte dei singoli Stati membri, in quanto tali. 

Lo Statuto riconosce al Presidente russo – Vladimir Putin – la violazione, tra le tante, dell’art. 8 (Crimini di guerra) di cui risponderà dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

Le sanzioni però, come si sa, seguono la violazione di un ordine ben “stabile” realizzato dal diritto. Stabilità condivisa dal Presidente russo, ma non rispettata nei fatti. 

Stabilità condivisa dal Presidente russo ma non rispettata secondo i fatti.

Risulta necessario, dunque, un intervento della Nato, invocabile ai sensi dell’art. 51 dello Statuto e per la violazione dell’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite. 

Ad oggi però non è in previsione tale intervento, subordinato ad una autorizzazione delle Nazioni Unite di cui fa parte anche lo Stato russo.

L’intervento ex artt. 5 e 6 dello Statuto della Nato8 è legittimato soltanto se a favore di un alleato (Ucraina non è uno Stato membro), o a favore di uno Stato non membro in difficoltà difensiva i cui effetti diretti o indiretti del conflitto potrebbero dispiegarsi su tutta la sicurezza internazionale.

Considerando che l’Ucraina geograficamente confina con gli Stati che fanno parte della Nato, ben potrebbe legittimarsi l’intervento.

Le vicende finora descritte sono prodromiche di uno scenario storico già previsto dagli studiosi americani e dai servizi segreti che avevano ritenuto altamente probabile lo scoppio della guerra, cosa che, invece, era stata sempre negata dagli studiosi internazionali. 

Alla base di queste riflessioni sulla probabilità o meno che la guerra scoppiasse, la necessità è quella di comprendere gli schemi attraverso i quali si è giunti a due conclusioni opposte.

Viene in soccorso la “Teoria dei Giochi”, modello di definizione delle relazioni internazionali, la cui funzione è quella di prevedere comportamenti degli avversari giocando in anticipo. Questa teoria è efficacemente applicabile soltanto se tutti i soggetti coinvolti adoperino strategie che seguano una logica ben delineata (es. attacco – difesa).

Tuttavia, l’utilità della applicazione di tale teoria è quella di prevedere e, quindi, impedire l’evento negativo. 

Se tale attacco è stato previsto dagli studiosi americani, il fallimento è stata la strategia applicata (o meno) rispetto all’evento verificatosi e definito come altamente probabile.

Idealmente, la risposta migliore sarebbe quella di intervenire in difesa dell’Ucraina, perché se si permettesse l’erosione dei principi sopra enunciati, si fornirebbe una visione debole dell’apparato ordinamentale e di sicurezza dei confini. 

Questa strategia però comporterebbe un rischio imprevedibile nell’era dell’atomico, disponendo la Russia di un pericoloso armamentario, che minaccerebbe anche la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, oltre che dei diritti sociali ed economici.

Il principio di precauzione sembrerebbe la strada più sicura da percorrere e che comporterebbe un non attacco ma un rafforzamento della difesa dei confini ucraini. 

Per quanto di interesse, l’Italia rispetto ad altri paesi europei, ai sensi degli artt. 10 Cost e 11 Cost, ha optato per una politica di neutralità ma anche di adesione allo Statuto della Nato; neutralità che, in un’ottica puramente giuridica, dovrebbe cedere il posto alla solidarietà europeista. L’eventuale intervento dell’Italia a favore dell’elemento solidaristico richiederebbe altrettanta solidarietà dai suoi partner europei.

Pur ritenendo che l’Italia sia il territorio a più alto rischio di perdite economiche, dovrebbe confidare nell’eventuale aiuto degli Stati membri, per evitare un danno maggiore rispetto a quello che potrebbe realizzarsi.

Appare evidente come non è la prima occasione in cui l’Italia sia più svantaggiata.

Si potrebbe obiettare che questa posizione fortemente svantaggiosa sia dettata da scelte politiche sostenute da ragioni ideologiche a sfavore dell’applicazione del diritto.

La scelta allora dovrebbe essere sostenuta, non da ragioni di opportunità, ma dai principi enucleati illo tempore. Questi esprimono, al di là del contingente, il meglio che possa offrire la società e la civiltà.

L’autrice Mary Sequino garantisce l’autenticità del contributo, fatti salvi i riferimenti agli scritti redatti da terzi. Gli stessi sono riportati nei limiti di quanto consentito dalla legge sul diritto d’autore e vengono elencati di seguito. Ai sensi della normativa ISO 3297:2017, la pubblicazione si identifica con l’International Standard Serial Number 2785-2695 assegnato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche.

1) Per “Usus” si intendono comportamenti conformi della maggior parte degli Stati agli usi e a scelte reiterate nel tempo; spesso condizionate da scelte politiche e da rapporti di forza.

2) Art. 103 Statuto Carta delle Nazioni Unite: “In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da esso assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”. L’articolo dello Statuto rivela principi intangibili ed è riconosciuto come disposizione ricognitiva di una consuetudine (jus cogens) dei valori della Carta.

3) Art. 1., par. 1: “I fini delle Nazioni Unite sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo scopo: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace”. – Art. 2, par. 3: “I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo”. – Art. 2, par. 4: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

4) Corte di Giustizia, 27 giugno 1986, c.d. “Caso Nicaragua c. Stati Uniti”, in e.justice.europa.eu

5) Organo delle Nazioni Unite incaricato di mantenere la pace e la sicurezza internazionali in conformità con i principi e le finalità delle Nazioni Unite codificate nella Carta delle Nazioni Unite.

6) Art. 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. – Art. 41: “Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure […]”. – Art. 42: “Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. […]”. – Art. 53, co. 1: “Consiglio di Sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. […]”.

7) Il riconoscimento dei singoli crimini internazionali non è contenuto in tale Statuto ma in una addenda a causa dell’incertezza di alcune fattispecie incriminatrici che interpretavano i principi di Norimberga, successivamente affermati nel 2009 in occasione della conferenza tenuta a Campala. Statuto consultabile su  fedlex.admin.ch

8) L’art. 5 dello Statuto prevede la difesa armata da parte della Nato nel caso in cui un membro degli Stati europei venga attaccato. Tale difesa armata viene disciplinata peculiarmente nel successivo articolo 6: ‘’Agli effetti dell’art. 5, per attacco armato contro una o più delle parti si intende un attacco armato:contro il territorio di una di esse in Europa […]contro le forze, le navi o gli aeromobili di una delle parti, che si trovino su questi territori o in qualsiasi altra regione d’Europa nella quale, alla data di entrata in vigore del presente Trattato, siano stazionale forze di occupazione di una delle parti, o che si trovino nel Mare Mediterraneo o nella regione dell’Atlantico settentrionale a |nord del Tropico del Cancro, o al di sopra di essi.’’